Articolo tratto da Banglanews a cura di Stefano Vecchia
Da quasi due mesi il blockbuster dell’India è “Kashmir Files”.
Non solo un successo cinematografico che la stampa indiana ha definito «di epiche proporzioni», segnando finora al botteghino un record prossimo a 3,5 miliardi di rupie (43,5 milioni di euro) contro un costo inferiore a un decimo di quella cifra.
Di proporzioni altrettanto «epiche» sono le polemiche che hanno accompagnato lavorazione e uscita della pellicola che ha come sfondo un territorio, quello del Kashmir, non solo di estrema bellezza e storia antica, ma da 75 anni anche campo di battaglia di due potenze militari e nucleari, India e Pakistan, nonché area di azione di terrorismo islamista e estremismo indù. “Kashmir Files” racconta la vicenda di indù in fuga da quello che viene descritto come un genocidio all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Riflette, dunque, la versione pachistana della vicenda: Islamabad punta al controllo di un’area strategica facendo leva, oltre che sulla minaccia delle armi, anche sulle tensioni tra fedi e etnicità.
Nell’agosto 2019, New Delhi ha rotto gli indugi includendo il Kashmir e il limitrofo Ladakh tra i suoi Territori federali. Una mossa che ha riacceso il contenzioso con il Pakistan per il primo, quello con la Cina per il secondo e ha posto fine a ogni soluzione negoziata che per decenni l’Onu ha cercato di mediare nella regione.
Una prova concreta della volontà del governo nazionalista sotto la guida di Narendra Modi di perseguire la politica di «Atmanirbhar Bharat», ovvero di un’«India autonoma» capace di affermare un ruolo essenziale nel mondo multipolare, anche sul piano militare.
Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), che registra lo sviluppo delle spese militari nel mondo, nel 2021 l’India si è posta al terzo posto dopo Stati Uniti e Repubblica popolare cinese con un bilancio di 76,6 miliardi di dollari, cresciuto del 33 per cento in un decennio.
Quella del Kashmir è una delle poche guerre non «per procura» del nuovo secolo ma quella più potenzialmente devastante, durata finora 27.227 giorni e accesa il 22 ottobre 1947 dall’annessione alla neonata Repubblica indiana di quello che era stato sotto gli inglesi un sultanato autonomo. Una scelta rifiutata dal Pakistan anche per la solidarietà di fede con la maggioranza musulmana della popolazione kashmira. Ne è derivata una divisione del territorio tra i due Paesi che né l’azione internazionale, né il successivo conflitto del 1965 o quello del 1971 combattuto a duemila chilometri di distanza pro e contro la nascita del Bangladesh indipendente, né – infine – gli scontri cruenti che si susseguirono ad alta quota nell’area di Kargil tra maggio e luglio 1999, hanno risolto. Parte integrante del conflitto, con pesanti strascichi di conseguenze e odii è stata anche la cosiddetta «Kashmir intifada» che tra il 1987 e il 2009 (con una ripresa nel 2016-2017) ha visto a rivolta dei musulmani kashmiri infiltrati da gruppi jihadisti e filo-pachistani e la durissima repressione indiana che hanno aggiunto almeno 40mila vittime a un numero complessivo del conflitto stimato in 500mila.
Immagine di Rohit Singh da Pixabay