di Paolo Lambruschi tratto da Banglanews

Dopo 18 mesi la guerra civile oscurata del Tigrai ha provocato solo disperazione e morte nel Corno d’Africa. Secondo le stime sono almeno 50mila i morti, mentre le vittime della carestia provocata dai mutamenti climatici – è in corso la peggiore siccità dal 1981 – e dal conflitto tra il centralista Abiy e i federalisti del Tplf che ha devastato la regione potrebbero essere quasi mezzo milione con due milioni di sfollati interni su sette milioni di abitanti. Il tigrino più noto, il direttore dell’Oms Tedros, ha definito «un inferno» questa catastrofe umanitaria avvolta nel silenzio dei media internazionali fin dall’inizio, il 3 novembre 2020 perché africana e per il blackout comunicativo voluto da Addis Abeba.
Eppure la guerra scatenata dal Nobel per la pace Abiy Ahmed, alleato con il dittatore eritreo Isaias Afewerki contro la regione ribelle, è una «operazione militare» più feroce di quella che seguiamo ogni giorno in diretta in Europa. E anche questa è caratterizzata da violenze sui civili e dagli stupri perpetrati dai belligeranti: le forze tigrine e dall’altra parte l’esercito federale, le milizie amara e le truppe eritree, che hanno invaso il Tigrai con il consenso del governo etiope.
Fino a giugno i tigrini sembravano vinti, da settembre hanno lanciato una controffensiva inarrestabile. A novembre sono arrivati a 120 chilometri da Addis Abeba, li hanno fermati i bombardamenti dei droni acquistati da Abiy in Turchia e negli Emirati e il veto di Usa e Unione africana al cambio di governo in Etiopia.
Quindi è arrivato il blocco all’ingresso degli aiuti nel nord Etiopia. Solo il Papa e la Chiesa cattolica hanno lanciato l’allarme.
Lo scorso 24 marzo il governo centrale, che aveva avviato colloqui segreti con i leader tigrini, ha proclamato a sorpresa una tregua umanitaria per consentire l’ingresso degli aiuti. Tregua che regge nonostante siano entrati in Tigrai meno di 200 Tir del Programma alimentare mondiale sufficienti a sfamare il 10% della popolazione. Ma i tigrini minacciano di romperla se non arriva il cibo. Secondo alcuni analisti, Abiy ha annunciato la tregua per evitare le sanzioni degli Usa, ma il suo obiettivo, condiviso dal regime eritreo e dagli Amara, è annientare gli arcinemici del Tplf. Quindi manda gli aiuti a singhiozzo per non rafforzare il nemico. Ma così il conflitto potrebbe riesplodere allargandosi al resto del Paese. Dopo 18 mesi, infatti, l’economia etiope è al collasso, anche per la crisi ucraina i prezzi degli alimentari sono aumentati del 40% rafforzando tensioni etniche e sociali.
L’Esercito di liberazione Oromo, etnia maggioritaria che si sente discriminata, alleato dei tigrini, è sempre più minaccioso. E nella regione Amara e ad Addis Abeba sono scoppiate violenze tra cristiani e musulmani. Con il nuovo assetto geopolitico mondiale il Corno d’Africa è tornato strategico. I cinesi, amici dei tigrini quando governavano l’Etiopia, ora sostengono Abiy. Che ha ricambiato votando a favore di Mosca all’assemblea Onu. Anche gli Usa, sponsor di Abiy ai tempi di Trump, con Biden hanno cambiato idea e si chiedono se sia il bellicoso Nobel per la pace l’uomo giusto per stabilizzare il vecchio gigante africano.

Immagine di Afrikit da Pixabay