Vorrei portare il mio abbraccio gonfio di dolore all’amata Bergamo, agli amici cari di questa terra buona, segnata, non per nulla, dalla memoria di un papa “buono” che risuona ogni giorno dal nome dell’Ospedale Giovanni XXIII, stremato, quasi sfigurato, dalla fatica del soccorrere.
Mentre un assedio di sole e di malinconia circonda il ricordo dell’abbazia di Sant’Egidio a Fontanella e del minuscolo camposanto alle pendici del monte Canto, dov’è la pietra di Padre Turoldo, riascolto la poesia della sua malattia, vera e dura come il diamante. Come l’anima dei bergamaschi.
Sacra e terribile distanza è la morte; vicino a noi, invece, è il morire.
Per questo sin dai primordi delle civiltà si dava una sepoltura. E nei documenti muti e scritti più antichi abbiamo notizia dell’impegno del lutto. C’erano le lamentatrici, quelle che si strappavano i capelli, facendo da ponte tra la vita e la morte, sospese sacerdotesse del confine del morire.
Il morire appartiene, infatti, alla vita. È fatto di legami, di rapporti, di amicizie, di quella humanitas di cui è fatta la vita.
E come gli umani non possono vivere soli, ancora di più, non possono morire soli.
Beato Simeone di cui nei Monasteri si recita la pace ogni sera, nel canto di Compieta: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi han visto la tua salvezza preparata da te davanti a tutti i popoli” (Lc 2,29ss)
Ora che ha visto il piccolo Gesù venire al mondo, il vecchio Simeone può morire e la speranza che dorme nei suoi occhi, può generare l’aurora.
Il suo morire è come il più dolce gesto di fiducia, di consegna, di infantile abbandono. Come si assopisce il neonato e l’amante così fa il morente.
Morire è un atto di resilienza. Indispensabile tesoro per coloro che restano.
Beato Abramo che morì “sazio di giorni” e, al suo capezzale, v’erano i suoi due figli: Isacco e Ismaele, riconciliati, riuniti per l’occasione! Il patriarca di ebrei e musulmani e dei cristiani di ogni chiesa, non poteva morire senza tenere la mano ai suoi figli tornati a riconoscersi nell’unico seme paterno.
Morire è un sigillo di fraternità.
Forse per questo l’ultima cosa che Gesù chiese ai suoi apostoli, l’unica che egli chiese per sé, nella sua vita terrena, fu di essergli compagni nel morire. “Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me»” (Mt 26,38). Una supplica toccante, struggente, quasi un’implorazione.
L’ultima notte, quella in cui la passione giunge allo sfinimento. Quando la tristezza e l’angoscia torcono il corpo e l’anima. Gesù sudò gocce di sangue, stravolte lacrime di strazio, di apnea, di paura. Di lotta che cedeva all’impotenza e all’arresa. Come il sangue di Abele, come Agar nel deserto della sete del figlio, anche Gesù levò un grido che stordì gli orecchi della terra… ma nessuno si svegliò, tra i suoi discepoli. Fu solo in quell’ultima, unica ora.
Nemmeno Dio Padre ebbe pietà del figlio.
Morire senza una carezza, senza una parola, senza la luce del volto degli amati è sommamente triste, orrore per tutti i viventi, sconfitta delle civiltà, inganno delle religioni e anche delle promesse del progresso.
“Quando si muore si muore soli”. Amara denuncia in un verso di Fabrizio De Andrè.
Ma rimane un rovello dalla storia di Gesù.
Il fatto che il primo a riconoscere in Lui in Cristo, il Salvatore (dalla morte) fosse proprio quel centurione romano che l’aveva messo – concretamente – sulla Croce! Tutti erano spariti, gli apostoli. Ma lui, il centurione era là sotto e poté vedere il modo di morire di Gesù.
“Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!»” (Mc 15,39).
Cosa vedeva? La compassione, la misericordia, il perdono. Il suo ultimo respiro reso come un dono, come un atto di fede nella Vita. Come la consegna del corpo dell’amante all’Amore, alla festa di una ventura Primavera.
E così noi. Impotenti a rendere ai nostri amici morenti il saluto agognato, ad accompagnarli con le dovute carezze, chiudiamo gli occhi come Simeone, e solleviamoli come il centurione, per ricevere il loro perdono, il loro sorriso, il loro augurio aurorale per domani.
La loro lievissima, vitale carezza.