Aumentano gli affamati, il colpevole silenzio del mondo di Gerolamo Fazzini
Avvenire – 23 marzo 2018
Tratto da Banglanews
Oggi fanno (giustamente) notizia lo scandalo legato a Facebook e le buche, talora voragini, per le strade di Roma. Ma, in molte parti del globo, c’è ben altro nell’agenda quotidiana.
Il Rapporto globale sulle crisi alimentari, diffuso ieri, ci sbatte in faccia un’amara realtà: la fame nel mondo continua ad essere una piaga irrisolta e, anzi, sta aumentando in maniera preoccupante. Al punto che ben 124 milioni di persone (l’equivalente di due Italie!) vivono in una situazione che necessita di «un’azione umanitaria urgente». Stiamo parlando di un fenomeno di portata globale, che dovrebbe essere – come fu negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso – almeno oggetto di mobilitazione nella società civile e nella Chiesa, per diventare priorità nell’azione politica. Oggi, invece, sulla fame nel mondo grava un silenzio mediatico pressoché assordante. Come scriveva nel lontano 1952 Josué de Castro, l’autore di “Geopolitica della fame”, «gli individui si vergognano così tanto di sapere che un gran numero dei loro simili muore a causa della mancanza di cibo che coprono questo scandalo col silenzio totale».
I dati sono così eloquenti nella loro drammaticità che dovrebbero scuoterci, non foss’altro a motivo del fatto che è evidente come un peggioramento delle condizioni di vita nei Paesi più poveri alimenti ulteriormente il flusso migratorio.
Se, infatti, sino a qualche anno fa – anche sull’onda dell’impegno per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio – la curva dei denutriti nel mondo andava lentamente calando, negli ultimi tempi si è assistito ad una pericolosa inversione: erano 80 milioni le persone nella trappola della fame del 2015, oggi sono un terzo in più. Solo nel 2017 sono aumentate del 15% rispetto all’anno precedente. Se le cose non cambiano, la situazione peggiorerà ulteriormente. Specie per l’Africa, il continente che, da questo punto di vista, appare più vulnerabile.
Colpa dell’aumento della popolazione? No, non è la demografia il cuore del problema, con buona pace dei neo-malthusiani. Serve un surplus di tecnologia? Male non farebbe, per aumentare la redditività dei raccolti. Ma, ancora una volta, non è questa la chiave decisiva. I dati dicono (e non da oggi) che i fattori decisivi, quando si parla di fame, sono le guerre e i cambiamenti climatici.
In entrambi i casi, siamo in presenza di emergenze figlie di comportamenti umani da cambiare radicalmente e non il risultato di fatalità da accettare passivamente. Sì, perché ormai sappiamo che anche i cambiamenti climatici sono in buona misura frutto di un’altra guerra, quella alla natura e ai suoi equilibri, all’ecosistema in cui l’uomo è inserito. Una guerra che sta prendendo una deriva che sa di follia.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha così commentato il Rapporto: «Sta a noi ora agire per rispondere ai bisogni di chi affronta ogni giorno la maledizione della fame e per affrontarne le cause alla radice». Già: servono interventi seri e organici, non (soltanto) sacchi di viveri da inviare quando in tv compaiono immagini strappalacrime di africani scheletriti.
Anche papa Francesco, qualche mese fa, in un messaggio alla Fao, aveva chiesto interventi radicali, partendo dal mutamento profondo degli stili di vita e delle politiche perché «fame e malnutrizione non sono fenomeni strutturali di alcune aree, ma sono la condizione di un generale sottosviluppo causato dall’inerzia di molti e dall’egoismo di pochi».
Ebbene, il monito vale per tutti: per i Paesi (occidentali ma non solo: è la Cina il primo inquinatore al mondo) che, sull’onda del consumismo, bruciano risorse ambientali come se un certo modello di mal-sviluppo fosse reversibile e privo di conseguenze.
Vale per chi, con le armi, fa affari d’oro sulla pelle dei poveri: aziende e governi del Nord del mondo (europei, Italia inclusa), ma anche – come ha denunciato di recente la rivista “Africa” – molti Paesi africani che hanno iniziato a produrre le proprie armi autonomamente, con «aziende che sono cresciute fino a diventare veri colossi» dell’industria della guerra.