Come abbiamo già visto in Mc 3.34-35, la sua famiglia, per Gesù nella sua vita adulta, non ha nessun peso, autorità, vincolo. E Gesù non si fa neppure una nuova famiglia. Egli sceglie per sé – cioè riconosce come vocazione – un altro modo di vivere, del tutto inusuale nella sua tradizione religiosa. Sceglie la vita comune fraterna, itinerante, con discepoli e discepole. Inventa la comunità. Gesù si è completamente sottratto a usi, costumi e frequentazioni famigliari, come già il suo amico e maestro Giovanni B., ma con due differenze: non nel deserto ma nella campagna per incontrare le persone nella vita quotidiana, e non vestito in modo diverso dagli altri, cioè non identificato e identificabile se non nell’incontro e nell’ascolto.
Questi brevi cenni ci hanno mostrato che nel suo vivere, parlare e incontrare, Gesù relativizza il primato della famiglia. Per lui la famiglia non è più l’unico e obbligato istituto di fedeltà a Dio, l’indispensabile luogo per la trasmissione della fede, della terra e dell’appartenenza a Israele, cioè dell’elezione di generazione in generazione. Perché Gesù è venuto a chiamare proprio quelli che erano esclusi da quella trasmissione di salvezza tramite la famiglia e il Tempio: a cominciare da lebbrosi, ciechi, malati, pubblici peccatori, stranieri, e le donne per molti aspetti. In questo modo ha fatto sì che anche tutti gli esclusi da Israele e dal Tempio perché impuri, avessero accesso alla Promessa e alla Parola di Dio.
Anche il fatto che, in Mc 10.19, Gesù metta il 4° comandamento – Onora il padre e la madre – all’ultimo posto nell’elenco dei comandamenti, concorre a dire come Gesù ridimensioni il primato della famiglia. Quando Gesù dirà che c’è un solo Padre e che tutti siamo fratelli (e sorelle), inventa la comunità fraterna, e non una grande famiglia, una cosa veramente nuova.
E ascoltando tutte le sue parole e i suoi rimproveri sull’ipocrisia religiosa, sul vizio di voler apparire giusti e pii davanti agli altri, il suo martellante mettere in guardia discepoli e discepole da se stessi, capiamo che Gesù ci mette in guardia sempre e solo da noi stessi e dagli uomini religiosi, soprattutto da quello che ci abita! Solo da chi ha ambizioni religiose: “Guardatevi dai falsi profeti, da quelli che vengono dicendo:” Sono io.” Da quelli che agiscono solo per farsi vedere, per esporre, e imporre, la loro immagine davanti agli uomini. Anzi, Gesù dirà che dovremo dire di no a costoro(Mt 24.23-25).
Ma la libertà più grande è quella da se stessi. La libertà evangelica, la sua, che Gesù vive e alla quale ci chiama, è la libertà di chi non si dà pensiero di se stesso, della propria vita, e la cui sorgente è la fiducia nel Padre che è nei cieli. Solo così, solo grazie a questa libertà da se stesso Gesù è attento alla presenza e alle necessità altrui. La sua libertà da sé stesso la vediamo nel suo essere sempre vigile e attento a chi ha intorno, e a chi gli viene incontro. L’attenzione alla realtà umana e non umana -cioè alla creazione tutta- è frutto del suo non essere distratto e preoccupato di se stesso.
E anche se in Gesù la libertà e l’intelligenza naturalmente, come in ognuno di noi, sono sempre unite, cerco ora di sottolineare i luoghi in cui emerge con più forza, e più stupore per noi, la sua meravigliosa intelligenza. Che è poi solo sottolineare il suo insegnamento evangelico sulla vita.
Prima tra tutte, l’intelligenza che Gesù ha delle Scritture sante d’Israele. Gesù ascoltandole e leggendole, va sempre in profondità a cercarvi l’intenzione di Dio, la luce che Dio ci ha messo dentro nella sua compassione per noi, e il suo desiderio di noi, di chiamarci alla libertà per vivere nella comunione con lui.
Gesù capisce e accoglie l’intenzione del Signore Dio che pervade tutte le Scritture, e vuole obbedire e compiere questo desiderio, questa supplica di Dio: di portare liberazione, luce e consolazione innanzitutto ai poveri tutti e tutte. Questo il primato che Gesù scopre nelle Scritture e che fa suo, che invera nella sua vita e predicazione: esaudire la supplica di Dio. E questa è la supplica di Dio nelle Scritture: che ascoltiamo la sua parola, che non restiamo preda degli idoli muti i quali, al contrario del vero Dio, sempre acconsentono alla nostra violenza e ingiustizia; che accogliamo gli stranieri, che provvediamo ai poveri, agli orfani e alle vedove, ai malati; che non ci lasciamo corrompere dal guadagno per acconsentire all’ingiustizia; che non facciamo ingiustizia né umiliazione ad alcuno e ad alcuna, neppure al nemico, lottando contro gli idoli che ci rendono ingiusti e anche stupidi.
E Gesù, nei vangeli di Matteo e di Luca, inizia la sua predicazione ai discepoli e alla folla col discorso della montagna, che si apre con le beatitudini. Gesù si rivolge ai poveri che soffrono sempre tante diverse situazioni di afflizione, e li dichiara beati rivelando che il Regno di Dio appartiene già a loro; cioè che non solo la loro povertà non è il segno e la prova che Dio li ha dimenticati, ma anzi, che è innanzitutto per loro il suo Regno che si è avvicinato loro adesso nella persona di Gesù.
Non dimentichiamo che Gesù, per insegnarci a vedere la dignità di ogni persona povera e piccola, a noi che, invece di inchinarci davanti alla piccolezza e povertà la fuggiamo, inventerà quella parola, quella scusa meravigliosa: ”Non sapete che i loro angeli guardano sempre la faccia di Dio?” E questo, oltre a dire l’obbedienza di Gesù al cuore delle Scritture, dice la sua intelligenza umanissima. Gesù è un uomo attento e consapevole, e sa che il patire è la prima cosa nella vita degli umani, e ancor di più nella vita dei poveri e delle povere che non hanno nulla con cui ottundere il dolore, nasconderselo, consolarsene. Gesù vuole consolare innanzitutto, ma anche insegnare a vivere le povertà e le ingiustizie della vita in un modo evangelico, che è poi il suo modo di vivere e di morire, un modo che diventa benedizione per se stessi e per il mondo.
Gesù inizia con la lezione più grande: beati i miti, beati i pacificatori, gli affamati e assetati di giustizia. Beati coloro che hanno capito che del male ricevuto non ci ripaga affatto il male che facciamo per vendicarcene e scaricarcelo di dosso, beati coloro che hanno capito che vendicarsi moltiplica soltanto il nostro dolore spargendolo sugli altri e rendendolo eterno per noi. Gesù non giustifica in nulla il dolore e l’ingiustizia subìta, mai; anzi, ci vieta in radice già nel nostro cuore ogni ingiustizia e violenza sul nascere, prima che si mostri e divenga offesa al prossimo. Ma è proprio qui che vediamo la sua intelligenza umana e spirituale: per esperienza Gesù sa che è possibile restare in comunione con gli altri e con Dio anche soffrendo ingiustamente, mentre non è possibile facendo il male.
Dunque, se non c’è altra alternativa, è meglio soffrirla l’ingiustizia piuttosto che farla. Gesù non parla mai del male in generale, ma del male fatto, e di quello subìto. Come i profeti, Gesù sa dire male del male agito, sa denunciarlo. Ma dichiara beati coloro che sapranno non ripagare con il male, il male ricevuto, perché costoro non aggiungeranno dolore a dolore per gli altri e per se stessi: questo è l’unico dolore che possiamo risparmiarci, a noi e agli altri! Solo l’amore, dato e ricevuto, ci può consolare del male ricevuto, mai il renderlo indietro. Solo l’amore è balsamo che consola le nostre ferite, quelle native e quelle ricevute poi. E ognuno di noi è invitato a scoprirlo nella sua carne, nella sua vita.